Questo il titolo di una famosa canzone di Franco Battiato legata alla fine di una storia di amore e lo stesso si può applicare anche alla vita lavorativa.
La notizia che circola in queste ore sulla maggior parte della stampa è legata all’impennata delle dimissioni volontarie nel secondo trimestre dell’anno.
Non si può parlare di questo fenomeno prescindendo da quanto sta accadendo negli ultimi due anni: la pandemia ha sicuramente influito su varie riflessioni personali e professionali: sono soddisfatto della mia vita? È davvero il lavoro che voglio continuare a fare? Come posso migliorare qualche aspetto che non mi piace?
Ovviamente a seconda delle varie risposte ci possono essere una serie infinita di comportamenti, legati proprio alla soggettività caratteriale: c’è chi pondera pro e contro e cerca di migliorare gli aspetti negativi, c’è chi agisce di “pancia” ed è pronto anche ad un nuovo inizio senza un piano b pronto come paracadute.
Tolto il fenomeno pandemia che ha acutizzato alcuni problemi è inutile negare che il malcontento all’interno delle aziende sia esistito da sempre.
Infatti, è pur vero che in un mercato in continuo fermento l’aumento delle dimissioni può essere un indicatore di salute: il lavoratore decide consapevolmente di uscire dall’azienda per dedicarsi ad un lavoro che incontra meglio le competenze professionali, oppure soddisfa maggiormente le esigenze lavoro-famiglia, concilia i tempi, permette di avere una maggiore gratificazione personale e allo stesso modo garantisce una maggiore produttività.
È chiaro che non si sta auspicando ad un mercato del lavoro ingessato, ma al contrario si sta riflettendo sulla possibilità di soddisfare sempre più i propri lavoratori per far sì che il presunto beneficio che possa derivare da una nuova offerta sia riscontrato all’interno dell’azienda per la quale stanno già lavorando.
Non si deve correre il rischio di migliorare le condizioni dei soggetti acquisiti dall’esterno rispetto ai lavoratori già presenti.
L’ultima riflessione, triste purtroppo, riguarda l’uscita dal mondo del lavoro delle donne: in questi casi, tra l’altro, l’uscita non è strettamente legata ad una nuova rioccupazione, o quanto meno alla ricerca di un nuovo lavoro, ma dettato dalla necessità di occuparsi della gestione familiare non conciliabile con quella professionale.
Questo è il vero gesso del mercato del lavoro.
Il mio contributo per Well Work